“Quando si scoprì che l’informazione era un affare, la verità smise di essere importante.” – Ryszard Kapuściński”

“Ciao, Ibtisam!”: un libro per non dimenticare Ilaria Alpi e Miran Hrovatin

31 anni fa l’agguato a Mogadiscio dell’inviata del Tg3 Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin 

Un libro per non dimenticare: “Ciao, Ibtisam! Il caso Ilaria Alpi di Serena Marotta, edito da Informazione libera. Un lavoro che racconta questi lunghi anni di depistaggi: dal giorno dell’agguato ai numerosi procedimenti giudiziari e la lettera inviata alla giornalista palermitana dai genitori di Ilaria, Giorgio e Luciana Alpi. Ilaria rimane un esempio di giornalismo libero e coraggioso…

Ma chi era Ilaria Alpi e perché “Ibtisam”?

«Ibtisam» è la traslitterazione della parola araba che significa sorriso. La scelta del titolo nasce dal desiderio di fare un omaggio a Ilaria Alpi, inviata del Tg3, che amava il mondo arabo. Ilaria che tutti ricordano proprio per quel sorriso che non l’abbandonava mai. Ilaria Alpi era nata a Roma il 24 maggio 1961. Dopo aver conseguito la maturità classica, aveva studiato lingue ed aveva
un’ottima conoscenza della lingua araba. Aveva vinto il concorso in Rai nel 1990, ma prima dal Cairo – dopo la laurea in lingue – aveva collaborato con Paese Sera, con L’Unità e altre testate. Quello del mese di marzo del 1994 era il suo settimo viaggio in Somalia.
Sensibile, determinata, donna semplice aveva un bel rapporto con i suoi genitori. Era figlia unica perché quando aveva 4 anni sua mamma aspettava due gemelli ma la gravidanza si concluse in anticipo e i bimbi dopo un giorno dalla nascita morirono. Era una ragazza indipendente, tanto che per non gravare sulle spalle dei suoi genitori, durante il periodo estivo, mentre ancora studiava all’Università, andava a lavorare in un ristorante, dove puliva acciughe. Dopo aver completato gli studi partì per il Cairo, poi il concorso in Rai. Ilaria oltre alla carriera, sognava di farsi una famiglia ma non ne ha avuto il tempo. Nel 1993 a Mogadiscio aveva conosciuto un fotoreporter australiano che lavorava a Roma e quindi continuarono a frequentarsi sino a
quando l’uomo non fu trasferito a Parigi e la loro storia finì.

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L’agguato a Mogadiscio

Il 20 marzo 1994, mentre si trovava a Mogadiscio, Ilaria Alpi – insieme all’operatore Miran Hrovatin – viene brutalmente assassinata in un agguato organizzato da un commando composto da sette uomini. Il duplice assassinio,  avvenuto nei pressi dell’ambasciata italiana e di un noto hotel, lascia e nasconde una serie di interrogativi. Intanto Ilaria aveva voluto quel viaggio, il settimo e ultimo: «È la storia della mia vita, devo concludere, devo fare, voglio mettere la parola fine».

Ci sono voluti anni per arrivare a delineare una precisa strada investigativa da seguire, l’individuazione dei mandanti e un limite di tempo: in tutto sei mesi. A partire dal 3 dicembre 2007. A restringere il campo d’azione sulla più probabile tesi da seguire, quella dell’omicidio su commissione, è stato il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Roma, Emanuele Cersosimo, che ha respinto la richiesta di archiviazione proposta da Franco Ionta, a luglio del 2007. Il giudice ha infatti accolto la richiesta dei genitori di Ilaria Alpi, rappresentati dall’avvocato Domenico D’Amati, di proseguire con le indagini.

«Da un’analisi complessiva degli elementi indiziari raccolti dagli inquirenti – si legge nell’ordinanza di rigetto del gip, che ribalta le conclusioni raggiunte finora dalla magistratura – la ricostruzione della vicenda più probabile e ragionevole appare essere quella dell’omicidio su commissione, attuato per impedire che le notizie raccolte da Ilaria Alpi e Miran Hrovatin in ordine ai traffici di armi e rifiuti tossici avvenuti tra l’Italia e la Somalia venissero portati a conoscenza dell’opinione pubblica italiana». Questa sembra essere l’unica strada per arrivare alla verità. L’unica opportunità, in quanto, nel frattempo, è sopravvenuta la prescrizione del caso Gelle: il testimone oggi non rischia più di essere incriminato e potrebbe spiegare perché mentì e chi sarebbe l’autorità italiana, che lo avrebbe pagato per farlo. È paradossale: il processo per calunnia contro il testimone chiave, che portò alla condanna di Hashi Omar Hassan a 26 anni di reclusione (per essere stato uno dei componenti del commando) per l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, si è chiuso per prescrizione il 10 ottobre 2012.  Con la sentenza di Perugia Hashi viene scagionato e risarcito. Ma troverà la morte una volta tornato a Mogadiscio.

20 marzo 1994: La giornalista del “Tg3” Ilaria Alpi e il suo operatore vengono uccisi nel pomeriggio (ore 14.30 locali) a Mogadiscio nord. L’uccisione avviene a poche centinaia di metri dell’hotel Amana e dall’ex ambasciata italiana dove la Toyota con a bordo Ilaria e Miran viene attaccata da un gruppo di somali armati. A renderlo noto è Giancarlo Marocchino, un autotrasportatore italiano che vive a Mogadiscio da dieci anni e che è lo stesso a soccorrere la giornalista e l’operatore, ad informare i militari dell’accaduto che non si recano sul posto. Sarà infatti Marocchino a trasportare Ilaria (ancora viva) e Miran – dopo aver trasferito i corpi dalla Toyota alla sua auto – al Porto vecchio, dove un medico tenta di rianimare, ormai inutilmente, Ilaria. Tutto viene documentato da un operatore della televisione ABC. Operatore che muore nel ’98 in circostanze misteriose mentre si trovava in una stanza dall’albergo in Pakistan.

Il viaggio da Mogadiscio a Roma

Il viaggio per trasferire le salme a Roma prevede più tappe. A bordo c’è una delegazione della Rai, e l’ambasciatore Umberto Plaja in rappresentanza del ministero degli Esteri. L’aereo arriva a Ciampino alle 2 di notte del 22 marzo 1994. L’autorità giudiziaria non è presente ma si procede lo stesso: le salme vengono trasferite dalle bare metalliche a quelle di legno.
Dopo aver seguito la salma di Ilaria, trasferita alla camera ardente allestita dalla Rai a Saxa Rubra, Giorgio e Luciana Alpi tornano a casa. Qui vengono raggiunti da un collega di Ilaria, Rino Pellino, che gli consegna gli effetti personali della figlia. I genitori si accorgono che i bagagli e la borsa sono senza sigilli. Inoltre mancano i documenti medici: uno redatto dal medico
italiano, Armando Rossitto, sulla nave (che sarà recapitato dopo due anni su richiesta degli Alpi) e l’altro dal medico del contingente americano (mai arrivato in Italia). Manca l’elenco degli oggetti personali che è stato stilato sulla nave “Garibaldi”, che sarà consegnato agli Alpi dal giornalista Maurizio Torrealta il 19 maggio 1994. Mancano due fogli protocollo dove Ilaria aveva annotato dei numeri telefonici e delle dislocazioni di navi. Mancano la macchina fotografica e alcuni dei bloc-notes. Sarà il giornalista Giuseppe Bonavolontà a dichiarare nel corso del processo di primo grado di aver contribuito ad aprire i sigilli.

L’autopsia dimenticata

Il pm Andrea de Gasperis non dispone l’autopsia sul corpo di Ilaria, ma solo un esame esterno. Il medico scrive che ad uccidere Ilaria è stato un colpo d’arma da fuoco esploso a contatto con il capo. La stessa cosa non avviene a Trieste, dove sul corpo di Miran viene eseguita l’autopsia. Da qui si verificherà un balletto delle perizie. Solo due anni dopo la sepoltura sarà Giuseppe Pititto ad ordinare la riesumazione del corpo. Pititto è il secondo magistrato che si occupa dell’inchiesta, nominato per affiancare De Gasperis. Qui i periti parlano di un colpo sparato da lontano. Quindi viene avvalorata la tesi del colpo casuale, escludendo l’esecuzione. Al contrario di quanto stabiliscono i periti della famiglia Alpi che parlano invece del colpo di pistola ravvicinato. Così, nel 1997, Pititto nomina un collegio di esperti. Nel frattempo, però, la conduzione dell’inchiesta è affidata a un altro magistrato, il terzo, Franco Ionta. Il risultato della “superperizia” porta ad un nuovo ribaltamento: il colpo
che ha ucciso Ilaria è stato esploso a distanza ravvicinata, e il killer, in piedi sulla strada, ha sparato aprendo lo sportello posteriore sinistro o attraverso il finestrino. Nel corso poi del processo di primo grado viene ribaltato di nuovo il risultato della perizia: un colpo sparato da lontano, quindi un colpo forse accidentale.

Questi sono solo alcuni dei punti trattati nel libro “Ciao, Ibtisam!”.

La lettera di Giorgio e Luciana Alpi inviata a Serena Marotta

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