“Quando si scoprì che l’informazione era un affare, la verità smise di essere importante.” – Ryszard Kapuściński”

La rappresentazione di Gesù nel cinema: dagli anni ’20 ad oggi

di Amalia Vingione

La figura di Gesù Cristo ha attraversato il Novecento cinematografico come un’immagine mutevole, soggetta ai riflessi culturali, estetici e teologici delle epoche in cui è stata messa in scena. Non è mai stata una semplice riproduzione narrativa del Vangelo, ma piuttosto una costruzione simbolica, un termometro spirituale del tempo. Ogni regista che ha affrontato questo personaggio lo ha fatto ponendosi inevitabilmente una domanda: come si racconta, oggi, l’Uomo-Dio?

Negli anni ’20, in piena epoca del cinema muto, Il Re dei Re (1927) di Cecil B. DeMille inaugura una tradizione spettacolare e reverente. DeMille, conscio dell’aura sacra del personaggio, decise di rappresentare Gesù con estrema cautela: la camera spesso lo riprende di spalle o in controluce, quasi a proteggere la sua divinità dallo sguardo umano. La spiritualità viene veicolata attraverso l’estetica e il decoro, più che attraverso la profondità psicologica. Interessante sottolineare come l’attore H.B. Warner, interprete del Cristo, fu invitato a rispettare un codice di condotta morale durante le riprese – niente alcol, niente parolacce – per non “contaminare” il ruolo, segno di quanto la rappresentazione fosse ancora vincolata da una forma di sacralizzazione iconografica.

Il tono cambia radicalmente con il kolossal Ben-Hur (1959), dove la figura di Gesù appare raramente, mai mostrata frontalmente, ma la sua presenza è tangibile ovunque, come una forza invisibile che guida il protagonista verso la redenzione. Qui Gesù non è tanto un personaggio, quanto una funzione narrativa, un simbolo salvifico. Il film, vincitore di undici Oscar, riflette un’epoca ancora legata a una spiritualità epica e rassicurante, dove la fede si conciliava con il trionfalismo cinematografico.

Un’ulteriore svolta avviene nel 1964 con Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini. L’opera, austera e profondamente politica, spoglia il racconto evangelico da ogni orpello hollywoodiano. Gesù, interpretato da un giovane studente spagnolo, non è un’icona marmorea ma un predicatore rivoluzionario, appassionato e a tratti spigoloso. Pasolini, pur dichiaratamente non credente, riuscì a creare un ritratto profondamente spirituale proprio perché libero da sovrastrutture dogmatiche. Il film, girato in bianco e nero con volti non professionisti, mescolava il sacro e il terreno, l’assoluto e la polvere, dando vita a una rappresentazione sorprendentemente autentica.

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Nel 1977, Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli riporta la figura di Cristo in una dimensione più tradizionale, ma con un’intensità emotiva nuova. Robert Powell, con i suoi occhi azzurri fissi e magnetici, costruiva un’immagine di Gesù che avrebbe marcato l’immaginario collettivo per generazioni. Curiosamente, l’effetto quasi soprannaturale del suo sguardo fu ottenuto evitando che l’attore sbattesse le palpebre durante le riprese – un dettaglio che aggiunge un’aura di misticismo a una narrazione per il resto molto accessibile. Zeffirelli unisce fedeltà biblica e sensibilità televisiva, creando una versione del Cristo capace di dialogare con il pubblico più ampio, quasi catechistica.

Infine, La Passione di Cristo (2004) di Mel Gibson rompe ogni schema precedente. Qui Gesù è innanzitutto un corpo sofferente, lacerato, esposto all’orrore fisico della crocifissione. Il film, criticato per l’eccesso di violenza, ma anche lodato per la forza visiva e la coerenza spirituale, pone l’accento sul dolore redentivo, trasformando la passione in un’esperienza quasi sensoriale per lo spettatore. Girato in aramaico, latino ed ebraico, con sottotitoli, il film cerca un realismo linguistico che diventa strumento di coinvolgimento mistico. La scelta di Jim Caviezel, un attore cattolico praticante, fu parte integrante della visione registica, tanto che l’attore fu colpito da un fulmine durante le riprese della scena della crocifissione – evento che Gibson interpretò come un segno della portata spirituale (e drammatica) dell’impresa.

Per concludere, possiamo dire che dagli anni ’20 a oggi, Gesù è stato sul grande schermo re, rivoluzionario, pastore, martire. A volte etereo, a volte terribilmente umano. Le sue rappresentazioni cinematografiche non sono mai solo adattamenti evangelici, ma rispecchiano le tensioni culturali, teologiche e artistiche del loro tempo. In fondo, raccontare Gesù al cinema significa anche raccontare il nostro rapporto con il mistero, con la fede e con ciò che, sebbene antico di duemila anni, continua a interrogarci con forza.

 


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